Nel vertice internazionale sulla Libia tenutosi a Roma il 6 marzo scorso neppure una parola è stata spesa sulla penosa condizione dei migranti in transito in Libia che, esattamente come sosteneva anni fa Gheddafi, non vengono considerati potenziali richiedenti asilo, ma solo migranti “illegali”, indesiderati tanto in Libia che in Europa. Dopo la caduta di Gheddafi, si è prontamente ripristinata la “cooperazione pratica” per il controllo delle frontiere, tra le forze di polizia e la guardia costiera libica, con la benedizione e i fondi dell’Unione Europea.
Al di fuori di veri e propri accordi bilaterali, difficili da stipulare (e da fare poi approvare dal Parlamento) con un paese che non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, le relazioni bilaterali tra i due paesi in materia di immigrazione ed asilo sono state affidate alla collaborazione tra le forze di polizia, con la copertura dei rispettivi ministeri dell’interno.
Anche dopo il 2011, i rapporti tra l’Unione Europa, la Libia, e gli stati dell’Unione sono rimasti segnati da un clima di grave incertezza perché le autorità centrali non hanno ancora il pieno controllo di tutto il territorio. La prospettiva di una “somalizzazione” della Libia, un paese enorme, scarsamente popolato, che si affaccia nel Mediterraneo e dal quale dipendono i rifornimenti energetici di mezza Europa non può evidentemente che allarmare, molto più di quanto non assuma rilevanza la questione delle decine di migliaia di migranti in fuga che rimangono intrappolati in Libia, o sono costretti a tentare la rischiosa via di una traversata “da clandestini”.
Enrico Letta, all’indomani della visita del Papa a Lampedusa, aveva promesso: “Argineremo i flussi. Ci servono risorse, mezzi e know how, ma bisogna anche creare sviluppo nei Paesi d’Origine”. Sfuggiva allora, e continua a sfuggire ancora oggi, che la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia via mare non parte per la mancanza di “sviluppo” nei paesi di origine, ma è costretto ad abbandonare casa, famiglia, affetti, lavoro o studio, per effetto di atroci dittature o di interminabili guerre civili.
Abbiamo visto, soprattutto con le due stragi di ottobre del 2013, davanti Lampedusa e nelle acque maltesi, quali sono stati gli esiti tragici di queste politiche fatte di grandi annunci e di modeste misure operative, quasi per intero rivolte al contrasto della cosiddetta immigrazione illegale e non alla protezione dei potenziali richiedenti asilo.
Quello che però colpisce maggiormente è la totale assenza di una politica mediterranea dell’Unione Europea: i rapporti con i paesi di transito vengono trattati sempre all’interno dei dossier che riguardano la lotta alla criminalità transnazionale, i controlli dei confini ed il contrasto dell’immigrazione “illegale” e del terrorismo.
Visti i possibili sviluppi negativi dopo le prossime scadenze elettorali, appare necessario che l’iniziativa politica, e non solo di carattere umanitario, venga ripresa a livello locale e nazionale da quel vasto circuito di associazioni antirazziste che ha ormai strutturato rapporti di collaborazione anche al di là del livello europeo. Sarà una strada lunga e difficile, ma non sono date altre possibilità per tentare di difendere i diritti dei migranti contro Direttive e Regolamenti orientati prevalentemente alla sicurezza ed alla protezione delle frontiere.
Fulvio Vassallo Paleologo