Giornata mondiale del Rifugiato 2016: la storia di Aweis

Mi chiamo Aweis. Sono rifugiato. In Somalia ero un giocatore della Nazionale di calcio somala, una promessa dello sport. Vivevo tranquillo insieme alla mia famiglia, avevo accanto gli affetti più cari.
Poi un giorno tutto è cambiato. Con l’arrivo di Al Shabaab ogni forma di libertà e di svago come lo sport, la musica, il ritrovarsi con gli amici, sono stati vietati.
Ho dovuto smettere all’improvviso di giocare a calcio.
Non potevo cedere alle minacce che ogni giorno mi facevano. Con il mio lavoro mantenevo mia madre e le mie sorelle.
Le minacce erano sempre più frequenti e dirette fino a quando alcuni militanti di Al Shabaab hanno fatto irruzione in casa mia per uccidermi. Io non c’ ero e una telefonata di mia madre mi ha salvato la vita: mi diceva di fuggire da Mogadiscio. Ho corso tutta la notte fino a quando dei ragazzi mi hanno fatto capire che l’unico modo per lasciare il Paese era rivolgermi ai trafficanti.
Tutti mi dicevano che il viaggio sarebbe stato breve e privo di difficoltà. Nulla di più falso. Dal Sudan, dove mi avevano lasciato i primi trafficanti, ho continuato il viaggio su un vecchio camion con tantissime persone a bordo.
Attraversare il deserto è stato per me un vero incubo, la parte peggiore del viaggio: dopo poco tempo il motore si è fuso e siamo rimasti bloccati nel deserto per 24 giorni senza soccorsi. Ho visto morire molti dei miei compagni di viaggio. Non bevevo e non mangiavo da giorni e sono svenuto. Mi sono risvegliato in un carcere circondato da militari che per giorni hanno continuato a minacciarmi, a picchiarmi e a chiedere soldi per liberarmi. Solo dopo ho capito di essere arrivato in Libia nella prigione di Sirte.
Dopo tre settimane con l’aiuto della mia famiglia che mi ha mandato dei soldi ho pagato le guardie e sono riuscito a scappare.
Stavo male, ma non potevo fermarmi in Libia. Dovevo continuare il mio viaggio.
Sono arrivato a Tripoli e da una piccola spiaggia sono salito un barcone in pessime condizioni. Ero insieme a moltissime altre persone, la maggior parte erano donne che volevano lasciare quel posto infernale.
Sono arrivato a Lampedusa dopo una notte ed un giorno di viaggio; ero stremato. Sono subito stato trasferito a Roma. I primi mesi sono stati difficili per me: non mi fidavo di nessuno e ho dormito per strada per molto tempo. Il Centro Astalli è stato sempre un punto di riferimento al quale rivolgermi e dove ho trovato dei nuovi amici. Oggi Roma è casa mia. Ho un lavoro stabile, tanti amici e la vita non fa più tanta paura.

Testimonianza raccolta in occasione della visita del Presidente della Repubblica presso il Centro San Saba

20 giugno 2016

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