LIBERI DI SCEGLIERE SE MIGRARE O RESTARE

Il tema della 109a Giornata del Migrante e del Rifugiato credo sia a un livello di comprensione del fenomeno migratorio molto più alto rispetto al comune dibattito che riguarda tale questione. Infatti ne evidenzia la complessità e sprona a una riflessione profonda che spesso non abita le argomentazioni dei dibattiti attuali: «i flussi migratori dei nostri giorni sono espressione di un fenomeno complesso e articolato la cui comprensione esige un’analisi attenta di tutti gli aspetti che caratterizzano le diverse tappe dell’esperienza», si legge nel testo del messaggio di Papa Francesco scritto per la Giornata. In non poche occasioni abbiamo sentito slogan o affermazioni del tipo: “Aiutiamoli a casa loro!”, “Non possiamo accoglierli tutti”, “Perché partono se poi sanno che mettono a rischio la propria vita e quella dei loro familiari?”, che non sono in genere espressione di un reale intendimento del fenomeno, ma piuttosto di preoccupazione per sé e meno per coloro che migrano in maniera forzata. «Al fine di eliminare queste cause e porre così termine alle migrazioni forzate è necessario l’impegno comune di tutti, ciascuno secondo le proprie responsabilità. Un impegno che comincia col chiederci che cosa possiamo fare …» queste le parole del Pontefice.
Ma anche quando entità statali e sovranazionali si ritrovano al tavolo delle discussioni e si riflette su un piano di investimenti sull’Africa, spesso non si fa l’interesse del Continente africano.
Dobbiamo chiederci allora anche «cosa dobbiamo smettere di fare. Dobbiamo prodigarci per fermare la corsa agli armamenti, il colonialismo economico, la razzia delle risorse altrui, la devastazione della nostra casa comune», sottolinea Papa Francesco. Contribuire perché si possa essere liberi di scegliere se migrare o restare
deve diventare uno sforzo congiunto a livello internazionale che va al di là dei confini dei singoli Stati, attraverso una condivisione delle risorse che smetta di penalizzare chi queste risorse le detiene e chiami in causa anche i nostri stili di vita.
«Ovunque decidiamo di costruire il nostro futuro, nel Paese dove siamo nati o altrove, l’importante è che lì ci sia sempre una comunità pronta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzione e senza lasciare fuori nessuno».

Camillo Ripamonti sj

LA PROSSIMITÀ CHE GENERA IL CAMBIAMENTO

Sono tanti i rifugiati che vivono in strada a Roma, Trento, Padova, Catania o Bologna: emerge chiaramente dai dati del Rapporto annuale che presentiamo in questo numero. Spesso hanno permessi di soggiorno scaduti o in corso di rinnovo, talvolta non riescono a presentare domanda di asilo. Sono soli, per lo più giovani. In assenza di politiche sociali strutturali e inclusive hanno bisogno di un incontro che cambi la rotta di percorsi che, se non sono accompagnati fin dal primo giorno, rischiano di perdersi e aggrovigliarsi in città in cui il pericolo dell’invisibilità è ancora troppo alto.
Via degli Astalli 14/A è un presidio di solidarietà per molti che vivono in strada a Roma. Un luogo in cui sono i volontari a fare la differenza.
Il “signore” di cui parla Ali nelle sue parole raccolte da Maria Vittoria Torresi, ematologa, volontaria dell’ambulatorio è l’instancabile Renzo Giannotti, farmacista in pensione che dedica da anni le sue giornate al Centro Astalli. A lui, a Maria Vittoria e agli altri 700 volontari, che ogni giorno rendono possibile accompagnare i rifugiati nelle otto città italiane in cui il Centro Astalli opera, va il nostro grazie perché più di tutto ci mostrano, realizzandolo ogni giorno, che un altro mondo è possibile.

Il mio nome è Ali Kaba e vengo dalla Somalia.
Sono arrivato al Centro Astalli perché alcuni miei amici mi avevano detto che lì potevano aiutarmi. Non ho ancora il permesso di soggiorno con me, lo sto rinnovando per cui ho bisogno di avere una residenza vera, ma vivo vicino la stazione Termini e in Questura non accettano la residenza che ho, in via Modesta Valenti. Ho la tessera sanitaria scaduta dal 2018 e il medico lo avevo preso quando stavo nel campo di prima accoglienza, ma una volta uscito non sono più andato da lui e ora non mi ricordo più dov’è. In strada è duro vivere: ho delle coperte e vestiti, ma il freddo quando arriva lo senti forte, forte. Sono abituato a vestirmi leggero, in Somalia fa sempre caldo!
Spesso la notte mi fa male forte la testa, le mani e i piedi non li sento più, sembra come se non li avessi. Il raffreddore e la tosse poi sono sempre con me. Il giorno vado in giro, arrivo quando c’è il sole alto a Piazza Venezia e aspetto che apra la mensa così almeno entro, mi riscaldo un po’ e mangio.
Un giorno un signore mentre facevo la fila mi ha visto, mi ha chiesto come stessi perché tossivo molto. Gli ho raccontato che la notte prima alcune persone si erano avvicinate e mi avevano rubato tutto. Ho aspettato al gelo della notte l’arrivo del giorno.
Sono andato con un amico in ospedale, mi hanno visitato, hanno detto delle cose difficili e mi hanno dato un foglio. Ho fatto vedere all’uomo il foglio dell’ospedale mentre stavo in fila per mangiare e mi ha detto che avevo la polmonite, ma non ho capito bene cosa fosse. Sul foglio c’era scritta la cura e le medicine da prendere che però non potevo comprare, perché non lavoro e la schiena mi faceva tanto male. Il signore mi ha fatto entrare, mi ha fatto sedere e mi ha dato le medicine spiegando il modo in cui dovevo prenderle e mi ha detto: “Prendile e vieni a dirmi come ti senti nei prossimi giorni!”
Adesso è passato più di un mese, torno tutti i giorni a mangiare alla mensa e passo a salutare il signore che mi ha fatto passare il dolore che avevo, lui mi dice che ora sono guarito e io sono contento!

I PASSIAvanti di Henrica

“Mi chiamo Henrica, ho 27 anni e vengo dalla Repubblica Democratica del Congo. Sono un’infermiera laureata.

Sono rifugiata in Italia. I primi tempi a Roma non sono stati facili. Oggi vivo in una comunità di ospitalità del Centro Astalli.

Ho fatto un corso di formazione come operatrice sanitaria e ho lavorato in diverse strutture. Ma soprattutto oggi studio all’Università Sapienza, sto facendo un master in scienze infermieristiche. Sono serviti tutti i miei risparmi per farlo. Per me è un grande sacrificio.

Mi impegno molto perché ho un obiettivo da raggiungere. Voglio riprendere a fare il mio mestiere di infermiera anche qui in Italia e per questo spero di riuscire a far valere i miei titoli di studio.

Quando sono arrivata sapevo che la mia vita era finalmente al sicuro. Ma non sapevo che ci sarebbero stati ancora tanti ostacoli da superare.

Per noi rifugiati la burocrazia italiana è sempre una cosa tanto difficile da capire, spesso fa paura. Uffici, documenti, appuntamenti, è un vero labirinto per molti di noi.

La pandemia poi ha peggiorato tutto. Molto uffici sono stati chiusi al pubblico. Bisogna prendere sempre appuntamento on line. Ti devi registrare al portale. Le password possono diventare un vero incubo per chi ha tanti altri problemi a cui pensare.

Iscrivermi all’università è stata una conquista per me. All’inizio ho avuto tante difficoltà.

Serviva lo SPID per l’iscrizione al master e per pagare le tasse. Ho chiesto aiuto perché non sapevo come fare. Collegarmi a internet, scrivere i miei dati, inserire le password, tanti passaggi da fare e da ricordare.

Serviva il modulo ISEE per fare l’abbonamento dell’autobus ma prima ancora serviva una residenza.

Da sola era troppo difficile per me. L’unico modo per noi rifugiati è farsi aiutare da un’associazione che ha il computer, un operatore che lo sa usare, che capisce bene la lingua italiana. Sa cosa ti serve e come fare per fartelo avere.

I servizi on line capisco che possono essere utili: niente file, niente attese, puoi fare tutto da casa. Ma tanti rifugiati una casa non ce l’hanno. La connessione è sempre un problema e anche avere gli strumenti giusti non è per tutti.

In teoria è molto bello quello che puoi fare con il web ma tra il dire e il fare per i rifugiati, ancora una volta, c’è un mare da attraversare”.

PASSIAvanti è un progetto promosso da Centro Astalli, Centro Astalli Trento, Popoli Insieme.

PASSIAvanti, ripartendo da zero

“Amavo il mio lavoro. In Somalia facevo il professore nelle scuole pubbliche ma questo non piaceva a chi controllava l’area, l’istruzione è un’arma potente. Dopo molte pressioni sono stato costretto a lasciare la mia casa e la mia famiglia per salvare la mia vita. Sono arrivato in Italia nel 2017, dopo aver attraversato la Libia e il Mediterraneo.

Arrivare in un nuovo Paese a cinquant’anni, imparare una nuova lingua e ripartire da zero non è stato semplice.

Oggi, grazie al progetto PASSI Avanti, ho partecipato ad un corso di formazione, ho acquisito molti strumenti nella ricerca lavoro e tra qualche giorno inizio un tirocinio formativo in ambito alberghiero a Venezia.”

A. è uno dei destinatari del progetto PASSI Avanti. Fin da subito A. ci ha tenuto a condividere con gli operatori di Popoli Insieme la sua storia e i suoi ideali. Non poter più insegnare è stato motivo di grande sconforto per lui.

Tuttavia in questi mesi ha avuto l’occasione di instaurare nuove relazioni e creare occasioni di scambio e confronto.

PassiAvanti è un progetto promosso da Centro Astalli Trento, Centro Astalli e Popoli Insieme.

I passi avanti di R.

R. e la sua famiglia sono arrivati in Italia tre anni fa, dopo aver dovuto lasciare l’India.
Vivono in un paese della Val di Non. “Certo, non è vicino alla città, ma siamo contenti. Mio marito ha preso la patente e siamo riusciti ad avere una macchina, quindi può andare a lavorare in poco tempo. Fa l’operaio in un’azienda non lontana da casa.
I miei figli sono sereni. La più grande, dopo tre anni di scuole medie, si è iscritta al liceo linguistico di Cles. Parla già benissimo l’inglese e l’italiano, va davvero bene a scuola. Anche i due più piccoli, che fanno le elementari, prendono sempre ottimi voti!
Grazie al progetto #PassiAvanti, il Centro Astalli Trento ci ha aiutati tanto, soprattutto con la scuola dei bambini. Fare le iscrizioni a scuola, prenotare la mensa, lo scuolabus… tutte queste pratiche sono un po’ complicate ed è molto buono avere un aiuto. Ci hanno anche sostenuto nelle spese per la scuola, i libri di testo, i quaderni, quando ne avevamo bisogno.
Purtroppo con il covid non è stato facile in questo ultimo anno. Con i bambini spesso a casa io non ho potuto cercare lavoro. Adesso va meglio e ho cominciato a darmi da fare. Molte cose sono ancora chiuse, in valle, proprio per la pandemia. Ma spero tanto, quando le cose miglioreranno, di trovare un’occupazione anche io!”
Spesso l’esito del percorso di integrazione di un rifugiato, come nel caso di questa famiglia, è minato da tanti piccoli ostacoli burocratici che senza un aiuto concreto possano diventare vere e proprie montagne da scalare.
La pandemia poi ha allungato molto i tempi necessari al raggiungimento dell’autonomia dei migranti forzati, soprattutto per le donne, che si fanno carico, ancora in molti casi, in maniera esclusiva, del lavoro di cura della famiglia, togliendo tempo e spazio alla ricerca di un lavoro fuori di casa. In tal senso un sostegno progettuale come #PassiAvanti può fare la differenza.


R. e la sua famiglia sono tra i destinatari di #PassiAvanti, un progetto del Centro Astalli, di Popoli Insieme e del Centro Astalli Trento.


#conirifugiati #ciriguarda #unnuovonoi

I passi avanti di B. e della sua famiglia

“Vengo dalla Nigeria, ho 33 anni e sono a Padova dal 2016. Quando sono arrivata non ho trovato la vita che mi era stata promessa. Non voglio parlare di quel periodo, ma per fortuna ad un certo punto la mia vita è cambiata, ho ottenuto l’asilo, ho conosciuto il mio attuale marito e nel 2019 è nata la nostra bambina.

Usciti dal centro di accoglienza siamo andati a vivere da un amico. Non è la situazione migliore che potessimo trovare ma finalmente tra un mese traslochiamo in una casa solo per noi.

Ho conosciuto il progetto PassiAvanti grazie alla rete che il Comune di Padova ha con le associazioni del territorio. Il progetto rappresenta per noi un passo importante verso l’autonomia. Mio marito lavora, ma sta cercando un contratto migliore, la bambina va al nido e a me piacerebbe trovare un lavoro part-time e accrescere le mie competenze professionali.

Siamo contenti di poter affrontare questo tratto del nostro percorso e della nostra storia con il supporto degli operatori di Popoli Insieme.”

B. e la sua famiglia sono tra i destinatari di #PassiAvanti, un progetto del Centro Astalli, di Popoli Insieme e del Centro Astalli Trento.

I passi avanti di J., insieme alla sua nuova famiglia

J. ha 24 anni, viene dalla Nigeria e lavora in una casa di riposo a Lavis, vicino a Trento. F. ha due figli grandi, è nata a Vicenza ma vive in Trentino da quasi quarant’anni.

Un mese fa, F. ha deciso di aderire al progetto “Accoglienza in Famiglia” del Centro Astalli Trento e di ospitare J. a casa sua.
“Ho sempre creduto nel vivere insieme con persone diverse, non necessariamente legate da rapporti di sangue. Fa bene a tutti, soprattutto alle famiglie, è una cosa sana, porta un soffio d’aria e di energia nelle relazioni”.

“F. è gentile e si vede che è abituata a dare tanto, a tante persone” dice J. “A casa mi trovo molto bene, anche se tutte e due siamo occupate con il lavoro e abbiamo i nostri amici. Ci incontriamo soprattutto la sera a cena.

Una cosa che mi piace tanto di F. è che mi ricorda la mia mamma, in Nigeria. Hanno la stessa età! Anche lei ha sempre la casa piena di gente, ama cucinare per gli altri, aiutarli. A volte dice proprio le stesse frasi che dice sempre mia mamma, è una cosa che mi fa un po’ ridere, ma anche mi fa stare bene”.

“Accogliere in casa propria una persona rifugiata” dice F. “non è difficile come qualcuno potrebbe aspettarsi e ti dà tanto. Ti fa aprire gli occhi, guardare con uno sguardo diverso e capire che, anche se lavorano magari, fanno fatica a trovare una casa. Il Centro Astalli Trento è sempre presente per aiutare a gestire la relazione in caso di bisogno. Insomma, vista anche la mia esperienza, mi sento di lanciare questo appello a chi ci sta pensando. Aprite la porta, mettetevi a disposizione.”

L’Accoglienza in Famiglia fa parte del progetto #PassiAvanti, promosso da Centro Astalli, Centro Astalli Trento e Popoli Insieme.

#conirifugiati #unnuovonoi #ciriguarda

GLI AFGANI IN CERCA ANCHE LORO DI PROTEZIONE

Zac ha 15 anni quando scappa dalle bombe in Kosovo. Suo fratello è stato ucciso da un soldato davanti ai suoi occhi.
Christine ha perso nella folla i suoi tre figli mentre fuggiva da un attacco armato in Rwanda. Ali, sudanese, è stato un bambino soldato. È fuggito per non sparare ad altri ragazzini come lui, in una guerra voluta da adulti criminali che invocano Dio per uccidere.
Sami arriva dalla Siria, nella carovana di un milione di disperati che nel 2015 entra in Germania in cerca di protezione fuggendo da una guerra lunga ormai 10 anni. Di recente Mark, Victor, Adam, Gracien, Hope, con tanti altri giovani uomini e donne provenienti da Mali, Gambia, Guinea, Mauritania, Eritrea arrivano al Centro Astalli perché hanno difeso un’idea di libertà, per fuggire alla sottomissione, all’impossibilità di studiare. Passano per la Libia dove conoscono torture e abusi e attraversano il mare pagando trafficanti che vendono morte.
In queste ore Ibraheem, maestro elementare in una scuola cattolica a Kabul e la sua giovane moglie Layla, Kamal, traduttore per una ong, insieme a pochi altri fortunati stanno arrivando in fuga dai talebani. Si aggiungono a una comunità numerosa di afghani che cerca protezione in Europa da oltre vent’anni.
Hanno bisogno di un medico, di assistenza legale, di un centro di accoglienza, di mediatori culturali che li aiutino a esprimere bisogni e aspirazioni e a comprendere un Paese che mai avrebbero pensato di conoscere. L’Unione europea, ancora una volta, rimane indifferente al dolore altrui, non sa trasformare l’emozione del momento in responsabilità. Ancora una volta decide di chiudere e respingere.
La società civile invece si mostra aperta e generosa e ci mostra che aiutare chi scappa dall’Afghanistan è un modo per riconoscersi comunità viva e solidale. È necessario e urgente trovare vie di incontro, ascolto e sostegno per chi scappa da guerre e dittature. Oggi sono in tanti, troppi migranti a vivere questa condizione per un tempo di gran lunga superiore all’onda mediatica che li accompagna.
Sostenere i rifugiati e chi li aiuta è linfa di ogni società, aprire le porte a chi arriva è garanzia di futuro. Ancora una volta a portare il peso del mondo sono gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno non smettono di chiederci: cosa possiamo fare?

Donatella Parisi

Ibraheem, Layla, Kamal, sono alcuni dei circa 100 i rifugiati afgani arrivati i primi di settembre durante l’evacuazione dall’Afghanistan che il Centro Astalli sta accompagnando nel loro percorso di accoglienza e integrazione in Italia.
Hanno bisogno di cibo, di cure mediche, di assistenza legale, di un centro d’accoglienza, di mediatori culturali che li aiutino a esprimere bisogni e aspirazioni e a comprendere un Paese che mai avrebbero pensato di conoscere.
Operatori, mediatori, volontari sono impegnati quotidianamente nell’assistenza e nell’accompagnamento delle persone arrivate.
Il nostro impegno per il popolo afgano è parte di un’azione che ci vede da 40 anni al fianco dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Italia, in fuga da guerre e persecuzioni.

Ti chiediamo di unirti a noi in un cammino fatto di azioni concrete che non è mai semplice offerta di servizi ma costruzione di una relazione in cui ogni rifugiato ha diritto di essere accolto, ascoltato, riconosciuto nella sua dignità.
Aiutare chi scappa dall’Afghanistan, aiutare i rifugiati, è un modo per riconoscersi comunità viva e solidale.
GRAZIE DI CUORE da parte nostra e di quanti riusciremo a raggiungere, anche con il tuo aiuto!

UN NOI SEMPRE PIÙ GRANDE

LA GIORNATA DEL RIFUGIATO E DEL MIGRANTE NELLE PAROLE DI FRANCESCO

La folla accalcata presso il muro dell’aeroporto di Kabul, i bambini sollevati verso l’alto dai genitori che cercano di consegnarli ai soldati americani di là dalla barriera, perché almeno loro si salvino (i più piccoli
hanno solo pochi mesi).

Un uomo giovane – scarpe da ginnastica e giubbotto antiproiettile – si china a sollevare un ragazzino che piange, per accoglierlo al di qua del muro.
È un italiano, è il console a Kabul.
Sarà tra gli ultimi a lasciare il paese. Le istantanee dei “salvati”, nei cargo militari che decollano dalla capitale afghana, destinazione finale Europa o Stati Uniti.
Gli occhi dei bambini: pieni di lacrime o di attesa, terrorizzati o rassegnati. Sono tante le immagini simbolo veicolate dall’informazione all’esplosione della crisi afghana, ultima emergenza in ordine di tempo, nel cuore dell’estate, con migliaia e migliaia di profughi, proprio alla vigilia della Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che da qualche anno si celebra nell’ultima domenica di settembre. La prima venne istituita più di un secolo fa, nel 1914. “Verso un ‘noi’ sempre più grande” sollecita il papa nel suo Messaggio per questa edizione (la numero 107), che porta la data del 3 maggio, in piena pandemia.
«Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica», scriveva il papa, «Voglia il Cielo
che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”». Il papa tratteggia quel ‘noi’ voluto da Dio “rotto e frammentato, ferito e sfigurato”. Tra i “nazionalismi chiusi e aggressivi e l’individualismo radicale”, “il prezzo più alto lo pagano coloro che più facilmente possono diventare gli altri: gli stranieri, i migranti,
gli emarginati, che abitano le periferie esistenziali”. Sapremo vedere negli altri il prossimo? Perché sarà la capacità di questo sguardo a fare la differenza, e a dire non solo e non tanto degli altri, quanto di chi guarda.
In primo piano, i migranti, nel cuore di questo papa e del suo pontificato, sin dalla prima visita, che nel 2013 volle a Lampedusa.
Accogliere, proteggere, promuovere e integrare, la linea sostenuta con coerenza, di fronte a ogni crisi e a ogni muro, per superare la sindrome dell’invasione da un lato e la difficoltà dell’integrazione dall’altro.
“Siamo tutti sulla stessa barca”, l’invito, anche questo più volte ripetuto. Ben visibile, da qualche anno, in
piazza San Pietro, la scultura di una barca carica di migranti di ogni tempo, di ogni età e di ogni popolo. «Lottatori di speranza», come il papa definì gli immigrati incontrati in apertura della sua visita a Bologna, il primo ottobre 2017.
L’appello a tutti gli uomini e le donne del mondo è quest’anno a “camminare insieme verso un ‘noi’ sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso”, immaginando “a colori”, il futuro delle nostre società, “arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali”.
La storia, lo sappiamo, non sempre è lineare, talvolta procede a salti. Un sogno di futuro è nel salto di una ragazzina sulla pista dell’aeroporto di Kabul verso il cargo che l’attende insieme alla sua famiglia, a chiudere una piccola fila indiana: avanti il papà, che tiene per la mano il fratellino, dietro la mamma, e poi lei, che lo scatto del fotografo immortala sospesa nell’aria, a qualche centimetro dal suolo. Nell’energia
e nella gioia di quel balzo la speranza di un ‘noi’ sempre più grande.

Vania De Luca

DA MARE NOSTRUM A MARE MORTUUM

Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva.
Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Mt. 8, 24-25.

L’episodio caratterizzò anche il momento straordinario di preghiera celebrato da papa Francesco in uno dei
frangenti più difficili della pandemia: rimane indelebile il suo incedere sotto l’acqua battente in una piazza San Pietro deserta. Stasera però è a un altro dramma cui volgiamo l’attenzione, quello di tante vite spezzate mentre per terra o per mare erano in cerca di speranza. È una tragedia che da anni bussa alle porte di casa nostra e soprattutto alla porta della nostra coscienza e che potrebbe ancora più tristemente degenerare in un vero e proprio naufragio di civiltà.

Avvenne nel mare un grande sconvolgimento: quanto il Vangelo dice a proposito del mare di Galilea può valere
ai giorni nostri per il Mar Mediterraneo, il nostro mare, luogo di scambio che per secoli ha messo in comunicazione terreferme e popoli distanti, è in tempesta e da tempo è più luogo di scontro che simbolo di incontro.

Attorno alle acque che hanno visto sorgere alcune tra le civiltà più splendide della storia, si assiste a una regressione del vivere comune tra naufragi, morti, scene di rabbia e di miseria, dibattiti e discussioni senza fine, strumentalizzazioni di varia natura e soprattutto tanta, troppa indifferenza. L’antico nome dato dai Romani al Mediterraneo, Mare Nostrum, rischia così di tramutarsi in un desolante Mare Mortuum.

Anche per i discepoli di Gesù quel giorno sembrava sopraggiunta la fine, eppure dice ancora il Vangelo, mentre la barca era coperta dalle onde, egli dormiva.
Il sonno del Signore era certamente fondato sulla profonda serenità d’animo che gli derivava dall’intima fiducia del Padre, ma può essere anche indizio di qualcos’altro:il riposo del Maestro era un’implicita richiesta ai discepoli a rimanere svegli.


Pure sulla questione migratoria, il rischio è quello di rimanere assopiti per poi destarsi di colpo e per breve tempo, quando la cronaca ci mette innanzi agli occhi immagini scioccanti, come quelle recenti dei bambini riversi sulla spiaggia di Zuvarah in Libia.

Tratto dalla predicazione di S. Em. Cardinal Pietro Parolin – Segretario di Stato della Santa Sede in occasione della preghiera ecumenica “Morire di Speranza”, Santa Maria in Trastevere, 15 giugno 2021.