IN QUESTO ANNO DI GUERRA

No, l’esercito russo non è andato in rotta. No, le sanzioni non hanno affondato l’economia russa. No, gli oligarchi non hanno organizzato un colpo di Stato contro Putin.
No, la Russia non ha finito i missili. No, non ci sono state armi che hanno cambiato il corso della guerra anche se ogni volta che ne è stato (e ne viene) fornito un nuovo tipo all’Ucraina è presentato come “game changer”.
Un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina e dopo un anno di incessante marketing della guerra, sul conflitto nel cuore d’Europa abbiamo poche certezze.
Sappiamo che si continua a morire, civili e militari, numeri che entrambe le parti nascondono.
Sappiamo che l’industria bellica sta facendo affari come non accadeva da decenni. Sappiamo che l’orologio del giorno del giudizio è a meno novanta secondi dall’apocalisse, mai così vicino ci ricorda il Bulletin of the Atomic Scientist.
In questo anno di guerra il “Pensiero Unico Bellicista” ha corroso la democrazia nel nostro Paese, un viscido stigma è stato scagliato su tutti i costruttori di pace, trattati nella migliore delle ipotesi come al soldo di Putin.
La voce dei pacifisti è scomparsa dalla conversazione pubblica e dallo spazio mediatico, occupato dagli opinionisti con l’elmetto, promotori di un bellicismo sganciato dalla realtà che insegue il miraggio della vittoria. Sin dalla primavera appare chiaro che la situazione bellica è in stallo, che non esiste soluzione militare.
Per dirla in breve: l’Ucraina non può vincere e la Russia non può perdere. Eppure continua a prevalere l’idea che la pace sia possibile solo dopo la vittoria; perfetta applicazione di quella cultura dello scarto di cui parla Papa Francesco: la pace ridotta a scarto della guerra.
Un anno dopo abbiamo però anche un’altra fondamentale certezza: chi chiede pace perché sin dall’inizio non ha creduto alla soluzione bellica, perché fermarsi ora significa sottrarre vite al tritacarne della guerra, chi chiede pace perché parlarsi “costa meno” è dalla parte giusta della storia. È anche dalla parte della maggioranza del popolo italiano, come confermano i sondaggi. Ed è ora di fare in modo che le nostre voci vengano ascoltate.

Nico Piro

Foto: Sergi Camara/Entreculturas


MALEDETTI PACIFISTI.
Come difendersi dal marketing della guerra

Nico Piro, giornalista e inviato speciale del Tg3, da tempo la guerra la vede da vicino, prima come inviato in Afghanistan, poi a Mosca per raccontare il conflitto tra Russia e Ucraina. Ragiona e scrive, nelle pagine del suo ultimo libro“Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra” (People, 2022), della vendita del “prodottoguerra” e della sua narrazione che ne fa male necessario dall’alto valore morale.
Un libro che vuole provare a smontare il dilagante “pensiero bellicista” e fornire all’opinione pubblica gli strumenti per distinguere la verità dalla rappresentazione.

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ACCOGLIERE I RIFUGIATI SALVA IL MONDO

Buon Natale Ali. Hai meno di un mese di vita e tu e la tua giovane mamma avete già tantissimo da insegnare al mondo.
Ci insegnate che nascere in un paese in guerra da 12 anni, come è per la Siria, non è una colpa. E se a casa si vive tra armi, bombe ed esplosioni, ogni essere umano ha diritto di scappare e mettersi in salvo dove la guerra non c’è. La tua mamma, arrivata da poco in Italia per raggiungere il suo sposo Saeid, ha scoperto di aspettarti poco dopo aver avuto la diagnosi di un tumore al seno.
Buon Natale Ruba, sei forte, coraggiosa, hai scelto di esserlo per te, per tuo marito, terrorizzato all’idea di perderti, quando i medici vi hanno chiesto di scegliere.
Sono stati mesi duri, ma tu sei stata una roccia. Sola senza le persone a te più care. In questa prova durissima, non hai potuto essere figlia tra le braccia di tua madre, rimasta in Siria, bloccata da una burocrazia assurda e sbagliata.
Oggi Ali compie il suo primo mese di vita, in una piccola incubatrice in un ospedale di Roma. Presto lo porterai a casa. Sta bene, è forte. Questo si è capito subito.
Fin da quando, senza sapere di averlo in grembo, hai sentito i suoi battiti per la prima volta, mentre i medici ti preparavano per la chemioterapia.
Buon Natale Saeid, che sognavi per tua moglie e tuo figlio un presente molto diverso da quello che state vivendo. Hai imparato in fretta che niente più di un bambino che nasce sconvolge i piani, ristabilisce le priorità, cambia le prospettive, fa spazio a nuove, impensate energie.
Buon Natale Michelangelo, Maria Grazia, Giacomo, Maria, Anna e tutti voi amici, volontari, operatori, medici che in ospedale e fuori siete stati famiglia per chi qui in Italia famiglia non ha. Avete curato, accudito, abbracciato, sostenuto, condiviso, pregato. Vi siete fatti comunità che accoglie, protegge e salva. Questo è ciò che fate ogni giorno, in una quotidianità che per voi non ha nulla di eccezionale e per questo vi rende testimoni credibili e autentici che un mondo diverso è possibile. Il Natale al Centro Astalli quest’anno ha il volto di Ali, Saeid e Ruba, una giovane famiglia, che come la famiglia di Nazareth ci insegna che accogliere chi arriva in cerca di aiuto è l’unico modo che abbiamo per salvarci.

Donatella Parisi

Foto: Francesco Malavolta

(Photo: Sergi Camara)

In Romania per i rifugiati ucraini una casa lontano da casa

Secondo i dati UNHCR di fine novembre, dall’inizio del conflitto 4.751.065 rifugiati ucraini hanno chiesto la Protezione Temporanea in Europa. Gli uffici del Jesuit Refugee Service (JRS) dei paesi confinanti con l’Ucraina sono coinvolti in prima linea nel fornire assistenza e accoglienza ai profughi, specialmente donne e bambini. Tra questi il JRS Romania ha attivato una serie di
progetti dedicati, rafforzando il team di operatori e mettendo in campo risposte tempestive a bisogni urgenti.
Tanti i volti e le storie che riempiono le giornate di operatori e volontari come quello di N., una donna fuggita con sua figlia e la sua nipotina.

Prima della guerra, avevo una vita molto bella. Vivevo a Mykolaiv e lavoravo come cassiera in un cinema. Mia figlia e mia nipote abitavano nella stessa città. La notte del 24 febbraio non riuscivo a dormire bene perché avevo il covid e a un certo punto ho sentito degli strani rumori: erano degli spari, ma in quel momento non avevo consapevolezza di cosa fossero. Ho svegliato mio marito. Poco dopo i nostri amici ci chiamarono per dirci che c’erano sparatorie e attentati all’aeroporto di Mykolaiv. Ero sotto shock. Dopo un paio d’ore, ho visto persone per strada che scappavano a piedi e con le macchine I primi giorni di marzo, sono andata al supermercato: cinque minuti dopo essere uscita, i bombardamenti lo hanno distrutto. Nove persone sono morte e io ero
uscita da lì soltanto da pochissimi minuti. In quel momento ho realizzato che non potevo più essere al sicuro. Pochi giorni dopo, con mia figlia e mia nipote siamo fuggite per arrivare in Romania. Abbiamo trovato da subito gentilezza e ospitalità: dalle prime persone che mi hanno aiutato ho sentito parlare del JRS e mi sono rivolta a loro.
Da quel momento, la mia famiglia è stata costantemente sostenuta. Abbiamo ricevuto un’accoglienza adeguata per una famiglia con una bambina. Abbiamo ricevuto supporto per le nostre necessità, sostegno psicologico, abbiamo potuto usare anche computer e connessione internet per far studiare mia nipote da remoto. L’assistenza del JRS ci ha dato stabilità e la sensazione di avere una vita normale e al sicuro. Sono loro molto grata per questo. Avere un alloggio a Bucarest ha offerto a mia figlia maggiori opportunità di trovare lavoro, la possibilità di stare vicino alla comunità ucraina e, allo stesso tempo, di integrarsi meglio nella società rumena.
Oggi abbiamo degli amici rumeni e un giorno, quando tornerò a casa, mi mancheranno la Romania e le persone che hanno trattato me e la mia famiglia con umanità. Sto aspettando che la guerra finisca per tornare a casa mia, ma per ora non è possibile. A Mykolaiv ci sono ancora bombardamenti, non abbiamo acqua corrente né elettricità e l’inverno è alle porte.

(Traduzione a cura di Massimo Piermattei)


La forza del JRS è nel fare rete

Il JRS Romania ha fornito assistenza umanitaria sin dalle prime fasi dell’aggressione russa in Ucraina. Le azioni messe in campo sono finalizzate ad accogliere, supportare, proteggere e includere le persone in fuga.
Nelle prime settimane del conflitto l’esigenza è stata soprattutto quella di dare alle persone cibo, acqua, prodotti per l’igiene, vestiti e un tetto.
Appena è stato, purtroppo, chiaro che l’accoglienza non sarebbe stata di breve durata, il JRS Romania ha realizzato una presa in carico integrata orientata al medio-lungo periodo. Particolare attenzione è stata dedicata ai bambini per garantire loro il proseguimento delle attività scolastiche, sportive e ricreative.
Tutto ciò è stato possibile anche grazie al coinvolgimento diretto del JRS Ucraina: molti operatori sono stati inseriti nello staff romeno, anche per facilitare l’azione di mediazione linguistica e culturale. (M. P.)

LE FAMIGLIE RIFUGIATE: GENERATIVE NELLA CONDIVISIONE

Fervono i preparativi per le festività natalizie nel centro Pedro Arrupe, dove il Centro Astalli accoglie famiglie rifugiate, donne in difficoltà con figli piccoli e minori stranieri non accompagnati. Gli ospiti e gli operatori si trovano ad affrontare insieme un periodo carico di aspettative. I rifugiati, anche se appartenenti ad altre culture e religioni, si lasciano coinvolgere e contribuiscono attivamente nel creare un’atmosfera calda e festosa.
Allo stesso tempo guardare con attenzione negli occhi coloro che vivono lontani dal proprio paese, dalle proprie radici e dai propri affetti, fa alzare il sipario su ricordi e immagini di un passato che ancora fa male.
L’avvicinarsi delle festività natalizie spesso rappresenta un’ulteriore sfida alla capacità di accogliere; molte sono le preoccupazioni che emergono nell’affrontare un periodo così carico di emozioni contrastanti da parte di tutti ma, a guardar bene, è il Natale stesso a portare la soluzione.
Un centro di accoglienza è a volte descritto come un microcosmo con caratteristiche che lo distinguono nettamente da ciò che si trova “fuori” e con un funzionamento tutto proprio, ma è in occasioni come il Natale che emerge chiaramente quanto le differenze fra chi è accolto e chi accoglie siano legate esclusivamente alla contingenza. E dunque è facile che le distanze si attenuino e che si lenisca il dolore della mancanza attraverso la condivisione.
Come in ogni casa ci si confronta sulla scelta degli addobbi per l’albero quando una mamma propone di conferire uno stile più accurato alla composizione o ci si trova a esprimere il desiderio di accontentare i più piccoli con il regalo giusto.
Ognuno mette un pezzo di sé: chi è più malinconico va ad attingere all’allegria e alla spontaneità dei bambini, chi è più entusiasta trascina e coinvolge chi è più restio o chi si trova, già grande, catapultato nel clima di festa.
I volontari giocano un ruolo cruciale e può capitare di vederli adornati da ali di angelo, intonare insieme i canti natalizi o vestiti con disinvoltura da Babbo Natale pur provenendo dal Madagascar.
Molte poi sono le conversazioni sulla scelta dei menu, non solo per coloro che il Natale per religione o cultura lo hanno sempre festeggiato.
Negli occhi e nelle parole di chi ha affrontato una migrazione forzata c’è un “prima” e un “dopo” che spesso vengono cuciti insieme grazie alla preparazione dei cibi tradizionali e dei piatti tipici delle feste. In un centro di accoglienza i sapori dei diversi paesi si incontrano e a volte si innestano fra loro. Impegnate ai fornelli le donne si scambiano consigli, osservazioni, divertenti perplessità reciproche.
Mentre si raccontano di sé stesse bambine accanto alle loro madri intente a preparare i cibi della loro infanzia, la cucina si riempie di vapore e profumi di mondi che così, almeno per qualche ora, sono più vicini.
I ragazzi giovani, giovanissimi, che sono in casa famiglia perché giunti soli, si avvicinano curiosi alla cucina e pian piano si propongono di preparare un piatto del loro paese o di contribuire assaggiando.
In un attimo le famiglie dei rifugiati, le donne accolte in Casa di Maria Teresa e i ragazzi di Casa di Marco, gli operatori e i volontari si fanno comunità. Una comunità che affronta insieme il dolore della lontananza e delle perdite subite, attraverso la convivialità e il calore che alla fine il Natale porta sempre con sé.

Cristiana Bufacchi

A VOLTE PER ALCUNI LA SPERANZA SI SPEGNE

È notizia di qualche giorno fa l’ennesimo suicidio in carcere. Tecca Gambe si è tolto la vita dopo pochi giorni di detenzione, come spesso accade, perché l’inizio della pena è uno dei momenti più delicati.
È l’ultimo dei 72 suicidi in carcere dall’inizio del 2022 (come riporta l’ultimo Dossier Morire di carcere redatto da Ristretti Orizzonti).
L’Italia è al decimo posto tra i paesi europei per il numero dei suicidi in carcere.
Nelle prigioni italiane ci si toglie la vita circa 16 volte di più rispetto alla popolazione generale. Il tasso di suicidi dei cittadini di origine straniera è superiore a quello degli italiani considerando che sono la metà del totale (dati di ottobre 2022) su una popolazione carceraria di circa un terzo.

Non bisogna dimenticarlo, non si tratta di numeri! Sono persone, per le quali il suicidio è un atto estremo, a cui si arriva a causa dell’interazione di fattori complessi e per cui troppo spesso mancano azioni di supporto e accompagnamento tempestivi e al contempo progettuali.

Per i migranti spesso il carcere in Italia è solo una delle esperienze di detenzione vissute. Alcuni partono fuggendo da una situazione di privazione della libertà nei propri Paesi di origine e spesso si tratta di incarcerazioni ingiuste legate a una aperta violazione dei diritti umani. Poi i viaggi comportano almeno un’altra detenzione, spesso illegittima, in cui torture e abusi sono all’ordine del giorno, come accade ai tanti migranti che vivono l’esperienza del carcere libico.
Per alcuni arrivati in Italia, il processo di integrazione si scontra con tante difficoltà. Finendo ai margini, le maglie della criminalità li intrappolano in una spirale che ha il carcere come epilogo di una parabola di esclusione. Questo diviene l’inizio di un nuovo abisso da cui non riescono più a uscire.

Il grido sordo di queste morti di migranti ancora una volta accende una luce su una zona d’ombra che è quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane. In generale è una situazione che ci deve interrogare tutti rispetto alla capacità di rieducazione degli istituti penitenziari come descritta nella nostra Costituzione. I migranti ancora una volta ci richiamano a una riflessione di civiltà non più rimandabile.

Camillo Ripamonti sj

Nuove Interconnessioni per ridurre il divario digitale

Kate è una signora nigeriana di 36 anni, madre di tre figli, rifugiata in Italia. Arriva al Centro Astalli dopo essersi rivolta – come aveva già fatto in passato – allo sportello di un ufficio pubblico per chiedere un documento, e aver scoperto che per ottenerlo da ora in poi sarebbe stato necessario farne richiesta solo tramite posta elettronica certificata.

Kate, che fino a un paio di anni fa si recava a quello stesso sportello e otteneva risposte e servizi, oggi deve rivolgersi a una organizzazione di volontariato perché le competenze già acquisite, utili a relazionarsi in modo autonomo con la Pubblica Amministrazione, non le sono più sufficienti. Deve fare propria una nuova terminologia e imparare a utilizzare nuovi strumenti.
Moltissime sono, ogni giorno, le richieste di supporto che riceviamo al Centro Astalli da parte di rifugiati e richiedenti asilo per tutte quelle pratiche burocratiche e amministrative che necessitano di procedure digitali anche complesse.

L’espressione digital divide risale all’inizio degli anni Novanta. Eppure descrive un fenomeno che a tutt’oggi condiziona fortemente i percorsi di integrazione dei rifugiati, amplificando le distanze e creando ulteriore marginalità, e sul quale è sempre più necessario agire. Kate, con la richiesta di aiuto al Centro Astalli, porta con sé un carico di frustrazione dovuto a un rinnovato senso di inadeguatezza nei confronti di istituzioni che sente di nuovo lontane e poco comprensibili. Il contrasto al digital divide è un processo che vede le istituzioni assumere progressivamente un ruolo sempre più attivo e che mette in luce la reciprocità della relazione fra il cittadino e la Pubblica Amministrazione.

Fra le iniziative che testimoniano come le istituzioni sostengano la necessità di affrontare insieme alla società civile tali sfide, il progetto “Interconnessioni – Potenziamento dei servizi per i cittadini di Paesi Terzi nel territorio di Roma” vede la Prefettura di Roma collaborare con Centro Astalli, Programma Integra e CRS Caritas, per migliorare l’accesso ai servizi dell’Ufficio territoriale del Governo dei cittadini di Paesi Terzi e contrastare il digital divide.
Il Centro Astalli può così rafforzare la propria attività di contrasto al divario digitale iniziata fin dalle prime settimane dell’emergenza sanitaria, e, allo stesso tempo, condivide con gli interlocutori della Pubblica Amministrazione un cammino che restituisce quella autonomia che sta alla base dell’accesso ai diritti fondamentali di ogni cittadino.

Cristiana Bufacchi

Un nuovo progetto per l’inclusione sociale

Nell’ambito delle azioni previste dal progetto “Interconnessioni – Potenziamento dei servizi per i cittadini di Paesi Terzi
nel territorio di Roma”, il Centro Astalli si occupa di:
1) supportare l’accesso dei cittadini dei Paesi Terzi ai servizi della Prefettura attraverso uno sportello di orientamento sociale e legale attivo presso il Centro Sa.Mi.Fo. (Salute Migranti Forzati);
2) attivare due sportelli di orientamento per il contrasto al digital divide (presso il Sa.Mi.Fo. e presso via degli Astalli 14/A), elaborare schede informative per gli utenti, produrre linee guida e organizzare un corso di formazione per gli enti pubblici e del privato sociale.

* Il progetto è finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione del Ministero dell’Interno, Obiettivo Specifico 2. Integrazione / Migrazione legale, Obiettivo Nazionale ON3 – Capacity building – Circolare Prefetture 2022 – I sportello, Annualità 2022 / 2023 – Progr. 3824

LIBIA: L’ITALIA RINNOVA IL MEMORANDUM DELLA VERGOGNA

Quando Bassen e Hana (nomi di fantasia) sono fuggiti dalla Siria sognavano solo un futuro migliore per la loro figlia di 4 anni. Un viaggio lunghissimo li ha portati fino in Libia, dove sono rimasti un anno e mezzo.

Per cinque volte hanno cercato di lasciare il paese via mare. Per cinque volte sono stati riportati indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica.
L’ultima volta sono partiti da Sabratha su una barca in vetroresina, senza giubbotti di salvataggio. “All’inizio siamo stati rapiti e portati da Bengasi a Tripoli, a Beni Walid. Volevano soldi in cambio della nostra libertà. Se non avessimo pagato, ci avrebbero ucciso e venduto un rene o parti del corpo. Alla fine siamo fuggiti e siamo arrivati a Tripoli.
Poi siamo riusciti a partire. Per tutto il viaggio abbiamo pregato per la nostra vita. Non potete immaginare la sensazione che si prova. Quando abbiamo visto la vostra nave, non potevamo crederci: era vero”.

Lo raccontano sul ponte della nave Ocean Viking di Sos Mediterranée. Il loro sogno – dicono – è che la bambina possa andare a scuola, crescere al sicuro, avere una vita normale, lontana dalla violenza e dalla fame. Bassen e Hana pensano al futuro mentre sono bloccati in mezzo al mare, da tredici giorni su una nave umanitaria. Nessuno stato, compresa l’Italia sta indicando per loro e per agli 273 naufraghi a bordo, un porto sicuro di sbarco. Il pugno duro del nuovo governo Meloni, per mano del ministro Matteo Piantedosi, ha preso di mira per prime le ong che operano per il soccorso in mare nel Mediterraneo centrale. Non solo la Ocean Viking, ma anche la Geo Barents e la Humanity1. Un ritorno al passato, alla retorica dei “porti chiusi” e delle ong “taxi del mare”. L’obiettivo – spiegano – è chiudere la rotta del Mediterraneo centrale.

Nel frattempo, il 2 novembre scorso, nel silenzio generale e senza proteste dell’opposizione, si è rinnovato automaticamente per altri 3 anni il Memorandum Italia-Libia. Prevede un supporto economico, di mezzi e addestramento per la guardia costiera libica. L’obiettivo è quello di bloccare le partenze e di riportare indietro, nei campi di detenzione, chi prova a scappare. Un flusso di denaro da parte dell’Italia stimato da ActionAid nel lavoro The big Wall in un miliardo di euro, dal 2017 a oggi. A nulla sono valse le proteste e le richieste di 40 organizzazioni internazionali con la campagna #nonsonodaccordo che ha ricordato quello che accade in quei centri di detenzione che Papa Francesco chiama “lager”. Secondo un rapporto di Amnesty International a perpetrare le violazioni sono attori statali e non statali. Tra gli atti documentati ci sono uccisioni illegali, torture, violenze sessuali, detenzione arbitraria a tempo indefinito in condizioni crudeli e inumane e lavoro forzato.
Intanto Bassen e Hana aspettano sul ponte della Ocean Viking un place of safety, sognano l’Europa e sperano di dimenticare l’inferno in Libia.

Eleonora Camilli

NEL MARE DELL’INDIFFERENZA SI CONTINUA A MORIRE

Il mese di ottobre come ogni anno si apre con la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza istituita nel 2016 in ricordo di quel 3 ottobre 2013 in cui persero la vita nel Mediterraneo 368 migranti. Da allora sono morte altre 25mila persone in quel tratto di mare che non smette di essere cimitero per molti, troppi migranti.
La storia di questi anni è stata testimone di un generalizzato atteggiamento di complice indifferenza, se non di una vera e propria criminalizzazione di chi si mette in viaggio in cerca di una vita degna, spinto da guerre e persecuzioni, da cambiamenti climatici, dall’ingiustizia o, motivo non meno valido, da gravi forme di povertà che l’atteggiamento predatorio dell’Occidente sta rendendo strutturale.
In questi anni ci siamo trovati più e più volte a chiedere che il soccorso in mare non fosse preoccupazione e prerogativa esclusiva di organizzazioni non governative, che in più di un’occasione sono state messe sotto accusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (come se a essere fuori legge fosse l’immigrazione e non piuttosto il mancato soccorso di bambini, donne e uomini inermi), ma fosse responsabilità, come dovrebbe essere, degli Stati.
Più e più volte abbiamo invocato l’apertura di vie legali, se quelle usate dai migranti erano stupidamente, irresponsabilmente e crudelmente definite clandestine.
Ma ci siamo scontrati per lo più con resistenze basate sul consenso elettorale che guida ormai i programmi politici più che la ricerca del bene comune.
Davanti ai numeri sconfortanti delle morti in mare tutto questo sembra sia stato inutile, come se avessimo sbagliato strategia. Una frase che si attribuisce ad Antoine de Saint Exupéry dice: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Forse allora avremmo dovuto, più che chiedere cose concrete a una politica distratta, assicurarci che nell’opinione pubblica si diffondesse la nostalgia per quelle libertà democratiche che oggi non sono garantite alle persone che scappano, nostalgia che sembra aver ceduto il passo alla tirannia del presente in un impoverimento generale che ha fatto perdere anche il senso di umanità in una apatica indifferenza.

Camillo Ripamonti sj

Anche a Milano ci sono le api

Sono più di 170mila le persone provenienti dall’Ucraina arrivate in Italia tra marzo e settembre, secondo i dati della Protezione Civile. Si tratta per lo più di donne, bambini e anziani. Tra loro Igor e sua moglie Irina, una coppia di persone non più giovani, fuggiti dalla regione di Kharkiv, zona di combattimenti in Ucraina, che hanno trovato accoglienza in Italia, a Milano, dove sono assistiti dall’Associazione San Fedele Onlus.
Igor e Irina hanno lasciato alle loro spalle tutto, casa, abitudini, i ricordi di una vita che forse non tornerà. Ora ci sono una nuova normalità e una nuova quotidianità da ricostruire giorno dopo giorno.
Igor, in Ucraina, era un apicultore appassionato. Irina ha raccontato agli operatori e ai volontari che come regalo di nozze, molti anni prima, il marito aveva voluto un’arnia.
Da una confidenza, dalla condivisione di una passione, di un ricordo felice combinato alla creatività e alla capacità di ascolto degli operatori sociali è nato un percorso di integrazione tanto inaspettato quanto riuscito.
Anche a Milano ci sono le api e ora Igor passa le sue giornate coltivando la passione della sua vita, in un centro di “apicoltura urbana” che si trova ai margini della città. La prima volta che Igor ha incontrato Mauro, l’apicoltore responsabile del centro, si sono messi a parlare fittamente (ciascuno nella sua lingua) e, si sono intesi subito sul da farsi. Evidentemente tra esperti del settore c’era una intesa che sfuggiva ai non addetti ai lavori!
Questa possibilità che si è venuta a creare per Igor forse riuscirà ad “alleggerire” la pesante situazione che sta vivendo questa coppia. Irina è malata di tumore e ha bisogno di cure e assistenza. Operatori e volontari dell’Associazione San Fedele Onlus le hanno assicurato l’aiuto medico di cui ha bisogno.
L’Associazione è infatti impegnata nel sostegno alla salute di donne fragili nel quadro del progetto “Comunità Resilienti”. Lo fa mediante la consegna gratuita di terapie e attraverso attività di educazione sanitaria. La consegna delle medicine spesso diventa l’occasione per affrontare i molti e complessi problemi che le persone fragili devono affrontare.
Molte volte, nell’azione di cura, a emergere come centrale, è il tema del trauma: questo si manifesta in molti modi (soprattutto attraverso sintomi depressivi) e in molti casi impedisce una programmazione realistica della propria permanenza in Italia. Non riuscendo ad accettare del tutto la condizione di straniero, molti vivono nell’illusione di un immediato ritorno nel loro Paese, di conseguenza non riescono ad attivare pienamente tutte le risorse necessarie a migliorare la loro situazione e a intraprendere un percorso di piena integrazione.
Per delle persone non più giovani come Igor e Irina le sfide si moltiplicano. Un accompagnamento che sia tempestivo, progettuale e rispettoso del lungo percorso di vita che li ha portati fin qui è segno di una comunità che nell’inclusione e nella cura anche dei più fragili si riscopre più forte e generativa.

Francesco Cambiaso sj


Comunità Resilienti è un progetto coordinato dal Centro Astalli realizzato in 10 regioni insieme a 12 partner della Rete territoriale del Centro Astalli e del Jesuit Social Network – JSN, grazie al finanziamento
del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali per l’annualità 2021 a valere sul Fondo per il finanziamento di progetti e attività di interesse generale nel terzo settore di cui all’art. 72 del d.lgs. n. 117/2017.
L’obiettivo è tutelare i diritti, rafforzare le competenze e migliorare l’accesso e la permanenza nel mondo del lavoro delle persone in condizione di fragilità e marginalità economiche e sociali, messe ulteriormente
sotto pressione negli ultimi due anni dalle ripercussioni della pandemia.
A beneficiare delle attività sono rifugiati, migranti, italiani in difficoltà e persone in detenzione, con un’attenzione particolare alle donne e alle famiglie.

IRAN: LE DONNE LOTTANO PER LA LIBERTÀ

La data del 16 settembre 2022 resterà impressa nella memoria delle giovani iraniane, ma anche di tutto il popolo che da anni subisce le imposizioni della Repubblica Islamica.

La brutale uccisione della ventiduenne di origine curda Mahsa Amini, fermata e picchiata dalla “polizia morale” a Teheran, ha suscitato un’ondata di sdegno e di rabbia che a distanza di settimane non si placa.

Il pretesto del fermo della giovane è stato il “non aver indossato correttamente il velo”. Correttamente secondo quali parametri? Quale legge avrebbe violato Mahsa Amini? Quella di Dio, come hanno affermato le autorità iraniane, o quella delle autorità stesse, di uno Stato teocratico dove il nome di Dio è usato come strumento di controllo e potere? Un rettangolo di stoffa vale davvero la vita di una donna?

Il problema della teocrazia si pone con tutta la sua forza dirompente. Un conto sarebbe la politica dove alcuni esponenti si ispirano ai valori della fede, senza però imporsi, né censurare altri credi, come accade in molti Paesi del mondo, anche in Italia, un conto è quando chi detiene il potere politico e militare si insinua fin nella vita privata dei cittadini. Quanto è lontano il mondo di chi crede, ama, prega, dal mondo in cui la religione rappresenta una sorta di diktat, dove non è previsto alcuno spazio per la scelta, dove sono uomini di potere a interpretare e decidere cosa si possa o non si possa fare “in nome di Dio”. Nelle teocrazie tutto è bianco o nero, fermo nello spazio e sospeso nel tempo. L’abbigliamento diventa una sorta di divisa di Stato e chi non rispetta la divisa, commette reato e peccato e viene punito fisicamente, rischiando non di rado la vita.
L’Iran non è purtroppo l’unico Paese islamico a imporre il velo per legge; ci sono anche l’Afghanistan dei Talebani e l’Arabia Saudita. In questi contesti parlare di velo come libera scelta è considerato un’eresia. Eppure, è il testo sacro stesso dell’Islam, il Corano, che recita che “Non c’è imposizione nella religione”, affermando cioè che alle azioni devono corrispondere convinzioni, sentimenti, intenzioni. Un velo indossato perché costrette diventa un accessorio odioso e privo di significato. Nel periodo della sua prima espansione l’Islam viveva un illuminismo pieno, con una dedizione alle arti, alle scienze e alla ricerca unico.
L’involuzione delle società islamiche ha portato a una radicalizzazione del maschilismo e complice il diffondersi della corruzione e l’instaurarsi di regimi oscurantisti e liberticidi, milioni di persone subiscono la privazione dei propri diritti umani. La prima parola rivelata nel Corano è “Leggi!”, ma i Talebani impediscono alle donne di studiare. Tradiscono i valori dell’Islam, ma si ergono a suoi custodi.
Il clamore delle proteste in Iran ha raggiunto in poco tempo ogni angolo del mondo grazie alla capillare diffusione della rete, che ha permesso ai giovani manifestanti di documentare da un lato le proprie iniziative di denuncia e protesta, dall’altro la brutale repressione.
Secondo l’Iran Human Rights sarebbero oltre 150 le vittime della violenza governativa. Non si può che solidarizzare con le donne iraniane, con i manifestanti che chiedono libertà e democrazia. Non bastano però gesti simbolici, si dovrebbe lavorare sul piano politico, ascoltando e sostenendo le voci degli oppositori al regime, come quella di Maryam Rajavi, che ha presentato un programma in dieci punti per la transizione dell’Iran verso la democrazia. Il popolo persiano merita di vivere in libertà, come tutti i popoli dovrebbero.

Asmae Dachan