Quando Bassen e Hana (nomi di fantasia) sono fuggiti dalla Siria sognavano solo un futuro migliore per la loro figlia di 4 anni. Un viaggio lunghissimo li ha portati fino in Libia, dove sono rimasti un anno e mezzo.
Per cinque volte hanno cercato di lasciare il paese via mare. Per cinque volte sono stati riportati indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica.
L’ultima volta sono partiti da Sabratha su una barca in vetroresina, senza giubbotti di salvataggio. “All’inizio siamo stati rapiti e portati da Bengasi a Tripoli, a Beni Walid. Volevano soldi in cambio della nostra libertà. Se non avessimo pagato, ci avrebbero ucciso e venduto un rene o parti del corpo. Alla fine siamo fuggiti e siamo arrivati a Tripoli.
Poi siamo riusciti a partire. Per tutto il viaggio abbiamo pregato per la nostra vita. Non potete immaginare la sensazione che si prova. Quando abbiamo visto la vostra nave, non potevamo crederci: era vero”.
Lo raccontano sul ponte della nave Ocean Viking di Sos Mediterranée. Il loro sogno – dicono – è che la bambina possa andare a scuola, crescere al sicuro, avere una vita normale, lontana dalla violenza e dalla fame. Bassen e Hana pensano al futuro mentre sono bloccati in mezzo al mare, da tredici giorni su una nave umanitaria. Nessuno stato, compresa l’Italia sta indicando per loro e per agli 273 naufraghi a bordo, un porto sicuro di sbarco. Il pugno duro del nuovo governo Meloni, per mano del ministro Matteo Piantedosi, ha preso di mira per prime le ong che operano per il soccorso in mare nel Mediterraneo centrale. Non solo la Ocean Viking, ma anche la Geo Barents e la Humanity1. Un ritorno al passato, alla retorica dei “porti chiusi” e delle ong “taxi del mare”. L’obiettivo – spiegano – è chiudere la rotta del Mediterraneo centrale.
Nel frattempo, il 2 novembre scorso, nel silenzio generale e senza proteste dell’opposizione, si è rinnovato automaticamente per altri 3 anni il Memorandum Italia-Libia. Prevede un supporto economico, di mezzi e addestramento per la guardia costiera libica. L’obiettivo è quello di bloccare le partenze e di riportare indietro, nei campi di detenzione, chi prova a scappare. Un flusso di denaro da parte dell’Italia stimato da ActionAid nel lavoro The big Wall in un miliardo di euro, dal 2017 a oggi. A nulla sono valse le proteste e le richieste di 40 organizzazioni internazionali con la campagna #nonsonodaccordo che ha ricordato quello che accade in quei centri di detenzione che Papa Francesco chiama “lager”. Secondo un rapporto di Amnesty International a perpetrare le violazioni sono attori statali e non statali. Tra gli atti documentati ci sono uccisioni illegali, torture, violenze sessuali, detenzione arbitraria a tempo indefinito in condizioni crudeli e inumane e lavoro forzato.
Intanto Bassen e Hana aspettano sul ponte della Ocean Viking un place of safety, sognano l’Europa e sperano di dimenticare l’inferno in Libia.
Eleonora Camilli