Vulnerate: le ombre sulla migrazione femminile

Quando nell’ambito della migrazione utilizziamo la parola vulnerabile, dal latino vulnus (ferita/danno), il pensiero corre immediatamente alle donne migranti, tra i soggetti più vulnerabili in assoluto.
Molte di loro vivono in società in cui le differenze di genere determinano disuguali trattamenti o in contesti violenti e abusivi, vittime di costanti violazioni dei loro diritti fondamentali. L’arrivo in un altro Paese non sempre coincide con un miglioramento delle condizioni di vita, ma piuttosto con il proseguimento del loro personale calvario.
È questo il caso delle vittime della tratta, fenomeno largamente diffuso che riguarda in particolare le donne migranti le quali, dopo un’iniziale fase di reclutamento nel contesto di origine, vengono condotte o mandate in un altro Paese allo scopo di sfruttamento sessuale, nella maggior parte dei casi, ma anche lavorativo o di altro tipo. Lo sfruttatore agisce in rete con altre persone e fa leva sullo stato di vulnerabilità e di bisogno della vittima, spesso attirandola con la promessa ingannevole di un lavoro e di condizioni di vita migliori.
Il ricatto che vincola la vittima alla rete di sfruttatori avviene spesso attraverso il debito in denaro, contratto per finanziare il viaggio stesso, e che potrà essere ripagato solo con anni di sfruttamento.
Una volta giunte in Italia, le donne trafficate, come molte persone migranti, corrono il rischio di restare invisibili in un sistema di accoglienza già saturo a causa della burocrazia infinita.
Il ruolo degli operatori è fungere da punto di riferimento in situazioni analoghe e favorire l’emersione di storie, come quella di Sunita (nome di fantasia).
La donna, originaria dell’India, ha manifestato allo sportello legale del Centro Astalli la necessità di regolarizzare la propria situazione documentale, poiché in possesso solamente di un attestato nominativo rilasciato dalla Questura tre anni prima.
Nel tentativo di ricostruire in maniera più dettagliata il suo percorso burocratico, è emerso che all’epoca della formalizzazione della sua richiesta di asilo la donna si trovava sotto il controllo di uno sfruttatore. L’aguzzino era un conterraneo, che l’aveva condotta in Italia con la promessa ingannevole di una vita migliore. In realtà, le faceva svolgere sfiancanti lavori in nero e nel privato la sottoponeva a continui abusi fisici e psicologici.
A seguito della morte dell’uomo, Sunita si era ritrovata sola, senza un riferimento e senza alcun documento valido. È stato allora che ha cercato aiuto. La sua condizione di estrema fragilità, per via degli abusi subiti, e la situazione, per la sua complessità hanno richiesto un’azione congiunta con servizi specializzati nel contrasto alla violenza di genere. Con il suo consenso, è stato attivato un piano d’intervento strutturato e, grazie alla collaborazione con un centro specializzato nel supporto alle vittime di tratta, sono stati raggiunti molti obiettivi. Lo svolgimento di diversi colloqui incentrati sul suo vissuto personale ha fatto emergere dettagli ulteriori su violenze iniziate già in India e ancora in corso. È stata, quindi, redatta una relazione da presentare alla Commissione territoriale a supporto della sua domanda di asilo e, alla luce della sua vicenda personale, è stato riconosciuto a Sunita lo status di rifugiata.
La sua storia è un chiaro esempio dell’importanza dell’attivazione del meccanismo di referral (riferimento/segnalazione), ovvero del lavoro sinergico di una rete di servizi che si occupano della presa in carico progettuale di una persona in ogni sua necessità. Ma al di là delle esigenze pratiche di regolarizzazione e dell’ottenimento di un permesso di soggiorno, Sunita aveva soprattutto bisogno di essere ascoltata e di
sentire di aver ripreso finalmente in mano la propria vita.

Ambra Manera
operatrice legale

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